di Paolo Veronese
col lapis
Qui, retrobottega di un remoto albergo
fra pareti e croste naif e lampadine,
sforza la noia a esser rabbia
e taglio e viscera e fiotto
sfaccettato abbecedario che ributta le parole
contro il brutto e ne fa un fascio
coi nervi tesi in una spastica tenaglia;
qui – eh - ci vive il lumicino danzante, che segna
l’aureo fiore sul tavolo, l’avorio di una
pagina, il carbone dell’anima intanto lascia
la flebile voce traccia.
(chi è?)
Sulla tavola un quartino, la striscia sbavata
del rosso, a far compagnia, l’ostessa che canta
le ultime strofe che s’incensano con le bestemmie
trascolorate nei bicchieri.
Un mucchio di stracci, uomini e briachi, carte
fischi e deretani stanchi, dov’è la nicchia,
dove l’ombra: vivente
fiammella? forse dietro c’è la mano forse strappa
un altro foglio, in un lacerare sordo in un sorso
che si ingoia il burbero rumore,
delle voci. Egli è assente, no, è
l’assenza
la graffiatura evanescente.
Forse scrive il suo minuto testamento.
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