di Paolo Veronese
Nei recessi profondi della mia notte, lì nidificano le trame scucite di pensieri e parole e parole e orli sfilacciati a mezzo nel diurno delirio a penzolare nel vento, a sostare nel vago luccichio del canto oracolare germinato in grembo al sole.
Ma qui, nell’occhio veggente pertché orbo, qui teso sull’abisso del silenzio, masticando il tabacco di quattro versi di un’impossibile poesia, e alle labbra sentendo l’amaro del sonno, e l’assenza di una voce che mi plachi il nero discorso, infossato, inchiodato in quel fondo dove si generano i sogni, cosa, un nome o un fato o un elettrico ticchettio di orologi, cosa mai continua imperterrito a tessere le righe incrociate di vene e lacrime, di cancellature e sbavi d’inchiostro, cosa eppure manda avanti la mano, china la testa e impugna la penna, cosa se non la presenza di un lume immaginato appena.
– Come Giovanni della Croce, che visse la notte dell’esistenza appeso al filo di chiarore che nutriva l’anima di santità –
nel vuoto imbasto di una tela oscura, dove tutte le voci mi strillano mute, dove la rugiada già si confonde col pianto di una prossima aurora io vedo, vedo nell’orbo nervo di un occhio stanco, vedo, ti vedo, vi vedo, ombre del reale, sostanze della vita, vedo e vi accolgo. Venite in pace, venite ad albergare nel tiepido mattino che nasce, son certo, nasce nel ventre più buio. Essa è una stilla luminescente…
Tace forse, si sente la crisalide pesare addosso, non sa volare ma c’è.
Non si ama forse la notte perché vi si indovina una tremula luce? In questa lucida follia, in questa assurda cecità, nei recessi profondi della notte non resta che amare.
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