di Paolo Veronese
L’arco d'edera artiglia la pietra
sopra l’uscio di questa casa vuota
solo respiro rimasto a consumarsi ospite
nell’abituro, ove l’Antico e il Tetro
mi parlano, in segreto
Sento l’odore di vecchia calce
di polvere e buio, che come ragnatele hanno
tramato un discorso nuovo, inerte cifra
per orecchio di nessuno. Nel tavolo la dolce
venatura s’è sfatta di tarlo e tempo, la vitrea
anta della credenza, caraffe e chicchere
e coppe e crepe e peltro
stagnano l’immagine di una Vita
capitata come per burla e riassorbita all’ombra
di una storia troppo ingombra di decoro
livida di lustro
da essere raccolta in un muto bric a brac
Gli oggetti oziosi si vestono di sguardi
destati dall’epoca in cui sono morti
e tu, anima sepolta che t’attardi
con me nel la musica del verso, nell’estinto
Esserci, tu non sogni forse quegli antichi orti?
In altra vita e altra età piedi nudi han corso
sulle pietre fredde, un senso di leggera brina
fremeva nei nervi, la casa era voce sonante
era moneta che tintinna chiara, era fragranza
di farina
era scrigno di popolo, maceria dei solai,
era dialetto sciolto nei rimbrotti, era pugno e bestemmia
era ilare vendemmia.
Quei quattro mascalzoni e parolai,
gente di bottega e gozzoviglia, a chi se non a me
rassomiglia?
In questo ventre sonoro, dove pareti e croste
ripetono la frase dei secoli, e la chincaglieria degli avi
pretende un segno, rivelarsi alla luce
trafiggere la gelosia delle imposte
e riversare a terra ruggine e bicchieri opachi
toccati solo da labbra non più di carne, rossetti d’attrice
di una alba sfatta, truccata di parole, o come
si assottiglia la sabbia di clessidre, a pronunciare
ogni sillaba ogni frammento o nome.
Erbe amare
che mastico e inghiotto, inchiostro e catrame
e cobalto e cenere.
Vivere, qui, vivere
la mia consumazione.
Mario Sironi, Natura morta con calamaio, 1916 c. Tempera su carta, 30,7 x 20,8 cm Collezione privata. Deposito presso la Collezione Peggy Guggenheim, Venezia.
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