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Natura morta con pettirosso

Aggiornamento: 31 mar 2020

di Paolo Veronese


Quasi un singhiozzo improvviso, un accenno di canto e un frullo d’ali; si precipita verso l’olivo, compie due volute di danza e si appollaia al ramo: scatta come un meccanismo, il capino scuro e incamiciato di vermiglio, sposta il becco a destra e manca per dominare la visuale. Dì un po’, proprio adesso dovevi capitare, a interrompere la mia meditazione, con la pagina che restava bianca almeno per oggi, in grembo al silenzio? Niente da fare, i tratti sono incerti, le pennellate amano giocarsi in capricci e grumi, pastose voglie e oziosi barbagli. La cucina sa ancora di caffè, di brodo e frutta, e altre tinte che ne compongono una bozza abbastanza fedele.

Cominciò che al cancello in fondo al vialetto suonò il campanello: ero io che cercavo me stesso: «Signora, suo figlio è in casa? Non lo vedo da giorni…»

Fallo entrare, conosco lo straniero, si fermerà un po’per due chiacchiere in giardino, ha portato con sé i colori.

Intanto tra i rami scoppietta in squittii e saluti alla primavera la fiammella irrequieta, si gonfia il piccolo corpo e strilla fuori il dono di natura. E nel silenzio anomalo in cui si è fissi, rintocca, squilla, trilla in testa e ci canzona, impertinente, come una sentinella che fischietta sul nostro cortile all’ora d’aria. I cani, solo i cani si sentono a ondate, ma è una voce da carcerati, un tintinnare di sbarre che rimbalza da cella a cella, molesta invidia della libertà. Uccelletto cattivo! Se ti acchiappo...

Il soffitto è alto e azzurro, assolato, il verde tutto intorno brucia anidride carbonica, si respira un po’ di vita fremente e riverniciata di stagione. Eppure siamo in attesa, immobili.

«Ti faccio un ritratto?, lì seduto al tavolino, come un dandy di primo Novecento» la smorfia che vuole simulare un sorriso gli viene male. No, meglio se lo intitoli natura morta, vista l’epoca odierna, e dico, epoca. Tu che vieni da fuori, da un tempo diverso non lo sai, ma qui succede che… deh, non importa, fa’ quel che vuoi. Ma non mi metterò in posa, resto con la vestaglia e le ciabatte, mi affido alla tua ispirazione, tu lasciami pensare al foglio bianco. Devo finire il libro.

Il cavalletto che apparteneva a mio zio e alle sue velleità, prima che le mie ci misero mano a imbrattare qualche tela, sosta in mezzo al viale, tre piedi e un rettangolo vuoto, en plein air come un impressionista sprovveduto, con la scatola che emana attorno odori di trementina e muffa.

Una piuma rossiccia, spennella in giro per l’etereo celeste il suo scarabocchio sottile, sorretto da chissà quale pensiero, o un altrove de cui pencolano i fili che ne tessono le traiettorie, un essere scagliato dall’istinto, senza coscienza, senza doveri o leggi. Non se ne va, quella macchia nel mio campo visivo, come un punto sanguigno, instabile, un bruscolino che mi irrita la cornea.

Natura morta, già a partire dal nome c’è una bella pretesa, come se fosse concepibile una sorta di ‘fermezza’ in natura, come più efficacemente dicono il tedesco Stillleben, still life. Tener ferma la vita? Un fotogramma, forse, ma che prelude al prossimo e deriva dal precedente, no, non credo possibile una ‘Natura morta’!

Non v’è forse un baco che lavora nel nascosto, sotto la buccia della mela, nella canestra del Caravaggio? Sotto il pigmento e l’olio che ne fanno mirabile inganno, non v’è forse il verme che testimonia la marcescenza in atto? O nella charogne di Baudelaire non v’è forse un brulichio di vita nel dibattersi al dispregio della carne? Una lotta inestinguibile. Nemmeno le bottiglie di Morandi mi paiono tranquille, nella loro metafisica distanza. Una scossa tellurica e sarebbero a pezzi, sul pavimento a formare nuovi strani concetti, lucidi spicchi di una realtà mai posseduta davvero dall’arte. Cosa fai, imbrattatele?

«Prima un disegno a carboncino, ecco, tavolino e la tua tazza di caffè: ehi, ce n’è un po’ per me? Due ovali, qualche riga, dei rettangoli – che libri sono, ma li leggi tutti in una volta?»

Oh vedi, il Capitan Fracassa di Téophile Gautier, quello più corposo, l’ho iniziato ieri e sono a pagina venti, mi pare. Gli altri impilati sul tavolino sono due di Simenon, lo sai quanto vado matto per il belga. Comincerò con questo, La Marie del porto. Ma ora lasciami bere il caffè prima che si raffreddi. Poi ne faccio uno anche per te.

Mischia un po’ di trementina al colore rappreso, poi si dà all’opera. «Quei fiori lì, dal profumo gentile, sono fresie?, ne metto un po’ in primo piano…»

Non so cosa dirgli, ci vorrebbe anche una pipa appoggiata sul tavolo, o penzolante dalla bocca. Tu fumi, per caso? No eh…

Sto fermo quanto ti pare, potrei non respirare, starmene nell’ingombro dello spazio pittorico come uno strumento in legno, se necessario, ma le pagine aperte le scuote un lieve vento, e poi ci sono le mosche, non vedi come strizzo i lineamenti? Altro che capolavoro ne verrà fuori. Natura morta con uno che legge.

Poi c’è quel punto, un rossore che sembra essersi staccato dal tramonto di una sera passata, che svolazza e canta intorno, fa i suoi cerchi e torna. In cerca di amore, è il fine del suo canto, la natura che chiama alla vita. Non è poetico ciò? Ogni primavera la festeggio con un carme, l’hai letto l’ultimo che ti mandai?

«Come, scusa, ero distratto, ma è un codirosso, quell’uccellino?»

No, e nemmeno un cardinale rosso, sai quelli col ciuffetto...è un petti-rosso. Ignorante!

«Ahh, mi pareva, comunque ho l’arancione per lui, posso mescolarci una punta di nero…»

Il pennello svolazza, le piume scivolano nell’aria fresca e limpida. Ormai comincia la sera, vieni dentro che ti offro il tè. Lascia qui fuori la tua tela, è solo una finzione, bianca e innocente. Neanche una goccia di sangue, nemmeno il sudore o le chiazze colorate della tua casacca da artista, né un pelucco del tuo basco. Non c’è niente, un capolavoro di fallimento. Forse non si può ritrarre la natura, né viva né morta. Entra su, fra poco il fulvo monello prenderà un filo ai bordi della tela col becco e in un va e vieni veloce la dipanerà, portandosi via tutto i giardino, il tavolino i libri e il caffè che per scherzo, abbiamo fabbricato oggi impastando un po’ di carta.

Se qualche sbavatura v’è scappata, perdonate l’artefice, non è lui che produce la vernice.



Chris Polunin, Still life with robin, United Kingdom, private collection.


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