di Luca Tosi e Giacomo Cordova
Fin dall’epoca dei dispositivi ottici precedenti il proiettore dei Lumière, il cinema ha instaurato un dialogo continuo con l’arte pittorica, sia come emulatore delle sue icone che come mezzo per crearne di nuove. Il primo dei due casi, sebbene abbia ricevuto notevoli consensi grazie a geni come Jean Renoir, Alfred Hitchcock, Stanley Kubrick o Terry Gilliam, non ha sempre brillato a causa dell’eccessivo sfruttamento di biografie di artisti dalla vita triste o tormentata, certamente più vicine al gusto di un pubblico appassionato di storie drammatiche, ma talvolta fossilizzate sulle regole del genere biopic, romanzate fino all’inverosimile o povere nel delineare il percorso dell’autore preso in considerazione. Con il passare degli anni e l’evolversi della tecnologia si è poi passati a storie e soggetti nuovi trattati in maniera più audace e meno convenzionale.
In questo altalenante scenario si inserisce il fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio, citato, in passato, dal maestro Andrej Tarkovskij in Solaris (1972) e, soprattutto, ne Lo specchio (1975), dove una scena riprendeva pari pari il dipinto Cacciatori nella neve (1565). Nello specifico parleremo della Salita al Calvario, olio su tela di 124 per 170 centimetri datato 1564, e della sua trasposizione del 2011 I colori della passione ad opera del cineasta polacco Lech Majewski. Rifiutando la fiction romantica de La ragazza con l’orecchino di perla (2004) e il j’accuse complottista di The Nightwatching (2007), questo lungometraggio punta ad una resa su grande schermo il più diretta e realistica possibile, perciò Majewski, figlio di un panorama cinematografico costantemente alla ricerca di un’estetica che vincoli emozioni e stimoli intellettuali insieme, opta per lievi movimenti di macchina e inquadrature statiche che scandiscano le scene di contorno della Salita e ricostruiscano il momento clou soltanto nel finale. Un lavoro sì meticoloso nella post-produzione e durato circa tre anni, ma che ha permesso di evitare la pallida citazione a fini di bravura grazie all’impegno e al continuo controllo del regista, impegnato anche nella sceneggiatura, nella colonna sonora e, soprattutto, nelle scelte di fotografia, tra cui spiccano l’utilizzo delle luci in esterna, il prevalere del rosso chiaro, del marrone e del verde a l’alta qualità del materiale di ripresa: tutti dettagli che contribuiscono ad aumentare tanto il realismo quanto la sensazione di essere trascinati nella realtà creata dal quadro. Ma costruire un’immersività simile non sarebbe stato affatto possibile se non fossero entrate in gioco le tecnologie digitali: la pellicola, a parte qualche eccezione, vive di piani totali che racchiudono sfondi in green screen animati dalla CGI (computer-generated imagery), i quali, a loro volta, rinchiudono gli attori in un confine preciso e li inseriscono nella vastità delle pianure. In parole povere la Salita prende vita davanti ai nostri occhi come se la si osservasse a lungo, creando un “effetto quadro” (Antonio Costa) che ci avvicina quasi del tutto alla sensibilità di Bruegel e alla sua impostazione scenica.
Parlando della sceneggiatura, essenziale per non ridurre tutto a mero incantamento visivo ed esplorare al meglio le tematiche offerte, Majewski si è basato, per la preparazione, sul libro dello storico d’arte Michael Francis Gibbon The Mill and the Cross: un titolo assai suggestivo se si pensa che oltre a dare il nome al film in lingua originale richiama le due “colonne portanti” su cui inevitabilmente si focalizza l’attenzione del fruitore. « Il mio dipinto dovrà raccontare molte storie ed essere grande abbastanza da contenere tutto », afferma il nostro (alias un iconico Rutger Hauer) mentre stende il bozzetto e spiega ogni scelta compiuta. E lo stesso fa Majewski nel tentativo di raggiungere la totalità della “tela di ragno” orchestrata dal fiammingo e di inserire il pubblico nella posizione di uno spettatore colto del Cinquecento, seguace del pensiero erasmiano e luterano; un testimone consapevole, il quale, riconoscendo di che stile si trattasse, avrebbe saputo immediatamente dove guardare e avrebbe captato anche il più criptico dei riferimenti. Tutto questo è riportato nelle brevi ma intense conversazioni tra Bruegel ed il suo committente (Micheal York), portavoce nel film dei suddetti spettatori colti: da esse nasce un parallelismo tra i due artisti, entrambi al servizio di un determinato audience delle loro epoche e intenti a vincolare affermazioni con precise immagini simboliche. La differenza sta nel fatto che il regista, oltre a riportare su carta le simmetrie, gli opposti e quant’altro sia celato nella Salita, deve allungare un singolo istante per un’ora e quaranta minuti aggiungendo la contemplazione del soggetto originale, una riflessione sul ruolo della mente creativa ed un fedele “reportage” del mondo contadino del XVI secolo, ai più sconosciuto. E in questo microcosmo di usi e costumi delle campagne belghe e olandesi viene rievocato non il Bruegel grottesco o caricaturale, bensì quello della gente comune, della natura dominante e dell’uomo immerso in un caos brulicante e il cui destino è tragicamente posto nella totale indifferenza altrui; le principali caratteristiche riscontrabili saranno pertanto l’amore per i dettagli derivato dall’arte incisoria e la vivida resa dell’atmosfera tipica della stagione scelta con pennellate raffinate, sottili. Capire il contesto in cui calarci e come ci verrà mostrato è indispensabile per metterci nei panni di quegli umili, i quali, nei loro vizi come nelle loro virtù, trovano il senso della vita nei gesti quotidiani e nelle piccole cose.
Ma c’è di più: il personaggio del committente e il suo ruolo metaforico ci portano da un livello di lettura sociale ad uno squisitamente storico-politico, in quanto egli spinge il suo cliente ad inserire richiami alle vicende contemporanee affinché la Salita diventi attuale. La situazione politica era infatti molto travagliata per i fiamminghi: il 16 gennaio del 1556, infatti, l’imperatore Carlo V d’Asburgo abdicò e cedette la corona e i territori di dominio spagnolo al figlio Filippo II, il quale affidò i Paesi Bassi alla sorellastra Margherita d’Austria. Il destino della contea venne segnato da una forte pressione fiscale, dalle battaglie dell’Inquisizione locale contro i calvinisti e da un’occupazione militare per contenere il malcontento. I mercenari spagnoli si dedicarono a soprusi ed angherie di qualunque sorta, con una violenza efferata mostrata coraggiosamente mediante un palo sulla cui cima svetta un cadavere appeso ad una ruota di carro e martoriato dai corvi: un’immagine sadica e densa posta in primo piano nel dipinto e protagonista, nel film, di un’intera sequenza che, oltre al crudo pathos, suscita commozione e fa emergere la dignità di chi soffre. Da ciò traspare un sottotesto fortemente polemico (gli spagnoli sarebbero tanto crudeli da mettere in croce Gesù Cristo in persona) che condanna ogni guerra mascherata da missione religiosa (in quelle tuniche rosso acceso non si scorge forse il sangue degli innocenti e di un messia tradito da atteggiamenti contrari a ciò che predicava?). La precedente ricostruzione storica è stata dunque prodromica a tali ragionamenti: solo dopo aver osservato un determinato scenario (limitato ai tempi incorniciato e oggi confinato nel campo visivo) e aver visto terminare l’idillio per mano straniera è possibile affezionarsi al ceto popolare e prenderne le difese. Tuttavia, arrivati a questo punto, ci si accorge perfettamente che le nostre emozioni non sono dirette a veri e propri personaggi. Pure il silenzio aiuta ad evidenziarli come “fili della tela”, figurine da inserire al momento opportuno nella composizione. Sono comparse e tali devono rimanere: un esempio lampante è la moglie di Bruegel (Charlotte Rampling), qui ritratta come semplice modella per Maria. Non bisogna però confonderli con pupi inanimati, pena la perdita della loro umanità; si parla sempre e comunque di persone in carne ed ossa, componenti senzienti di un sistema più grande ed elaborato. Si paventa dunque un percorso contenutistico che procede dal basso verso l’alto come la Via Crucis e retrocede dai dettagli fino ad inquadrare l’insieme. Ritroviamo, insomma, l’invito di Bruegel a strappare ogni velo di Maya, con tempo e pazienza, dal particolare all’universale, dai significanti al significato.
Infine, con una sospensione temporale durante l’acme del momento senza inizio e senza fine immortalato da Bruegel (volta ad aumentare la tensione verso il vertice architettonico occupato dal mulino), si giunge all’onnicomprensivo livello religioso: solo tramite esso ogni cosa acquista senso, altrimenti rimarrebbe vuota pur esprimendo tutta se stessa. Verrebbe da chiedersi se addirittura lo stesso Gesù, perso com’è nella vasta folla e inquadrato in pochi momenti, sia un semplice volto tra i tanti e nulla più. In verità la sua posizione centrale alle pendici della montagna corrisponde perfettamente al punto di fuga , quindi eventuali dubbi sull’effettiva importanza del “personaggio” vengono immediatamente fugati. Il fatto che il volto del Salvatore sia in ombra è chiaramente dovuto al “pudore” dell’artista nel rappresentarlo sofferente, ma anche al nuovo contesto storico in cui è inserito il soggetto. Difatti la “seconda croce” rappresentata dal palo con la ruota in cima distoglie l’attenzione verso il doloroso cammino di Nostro Signore; siamo in pratica costretti a portare lo sguardo dal punto di fuga al primo piano e focalizzarci, perciò, su un altro martirio. Il tema tipicamente bruegelliano di eventi straordinari ignorati da uomini comuni immersi nelle loro faccende quotidiane (un altro celebre esempio è la Caduta di Icaro del 1558) si amplia e si intensifica: nelle Fiandre invase la Passione di Cristo rischia di essere dimenticata per via dell’abitudine di assistere periodicamente a torture pubbliche e della preminente necessità di pensare a sopravvivere. Ma la tensione non si è spezzata, il mulino si erge ancora statuario nella sua immobilità e, prima che un raggio di sole piova dal cielo plumbeo e il tempo riprenda a scorrere, la camera da presa indugia su Dio nelle vesti di mugnaio intento ad osservare il frutto del suo lavoro, quel grano macinato simbolo del corpo martoriato del figlio con cui verrà preparato “il pane dela vita e del destino”. Ecco allora Gesù e i condannati innalzarsi metaforicamente e gridare che il loro sacrificio non rimarrà vano se ricordato e onorato con il raggiungimento della pace. Come ai tempi della Palestina soggiogata a Roma, una rivoluzione politica potrà essere raggiunta solo se preceduta da una religiosa, unica possibilità per far coincidere la redenzione dai peccati con la libertà dall’oppressione. Il cammino di decifrazione della tela si tramuta in un’ascesi spirituale che invita ad affrontare il mondo e cambiarlo seguendo gli insegnamenti e l’indole pacifica del Redentore.
Un’allegoria, questa, che Majewski restituisce pienamente e che rende ancora più potente con la sequenza finale, dove la cinepresa inquadra la sala del Kunsthistorisches Museum di Vienna dove il dipinto è conservato per poi retrocedere e dare il via, con una dissolvenza in nero, ai titoli di coda. L’incantesimo finisce ed è ora di lasciare la sala del museo o del cinema, anche se profondamente arricchiti dalla “lezione” di Bruegel, esposta da Gibson e filtrata da Majewski. È come se fossimo sempre stati all’interno di quella realtà e che l’effetto scenico conclusivo, sulla scia del precedente raggio di sole, abbia interrotto tutto riportandoci al di là della quarta parete. Abbiamo vissuto e compreso una società che ci appariva lontana, abbiamo interiorizzato la mentalità e il modus operandi di un artista, abbiamo compiuto una salita fisica (Via Crucis), intellettuale (osservazione dell’opera pittorica) e spirituale (messaggio religioso sovrastante quello politico-sociale) e abbiamo, infine, ricevuto una visione del mondo più positiva rispetto a quella di Bruegel il Vecchio ma che non tradisce il tentativo di attualizzare continuamente il dramma e il vangelo del Cristo. Termina così l’analisi de I colori della passione, pellicola che lancia un monito preziosissimo per chi ama l’arte: grattare la superficie di un’opera e ricostruirne pazientemente i segreti nascosti è l’unica maniera per apprezzarla e per crescere interiormente da qualunque punto di vista, morale o estetico che sia. Per cui, se è l’artista stesso ad invitarvi a cercare, non esitate.
" BRVEGEL M.D.LXIIII "
così si firma, nel 1564, il pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio nel proprio dipinto denominato Andata al Calvario. Eseguito ad olio su una tavola delle dimensioni di 124 per 170 centimetri, è uno dei più grandi dell’artista originario di Breda, e rappresenta una messa in scena della Passione, contestualizzata in un ambiente contemporaneo a lui ben noto.
La storia del quadro è contrassegnata da vari passaggi di proprietà, ai quali si alternano periodi di silenzio e si ignorano tutt’ora le date, i mezzi e i motivi per cui l’opera fu trasferita in tutti i luoghi nei quali è stata visibile nel tempo. Si attesta infatti che già fino al 1566 fosse in proprietà del collezionista Niclaes Jonghelinck ad Anversa, mentre nel 1604 il van Mander scrive di averlo visto a Praga, in coppia con un altro quadro con dello stesso tema, presso la corte di Rodolfo II, tra le opere di proprietà del sovrano. Fu poi spostato a Vienna, dove venne effettivamente registrata nel 1748 sulle pagine dell’inventario della Geistliche Schatzkammer, e ancora, dopo un trasferimento nel 1809 da Vienna a Parigi, in piena età napoleonica, oggi è custodito nuovamente dal 1815 nella capitale austriaca, al Kunsthistorisches Museum.
Il quadro risulta essere in uno stato di conservazione praticamente perfetto: la tecnica dell’olio su tela infatti, nata proprio in ambito fiammingo circa due secoli prima dell’opera di Brueghel, essendo assai più resistente della tempera ai cambiamenti e al consumo da parte degli agenti naturali, ha permesso una lunga vita al dipinto.
Nell’opera, oltre cinquecento personaggi si muovono come in corteo affollando il paesaggio collinare, già mosso dalla disomogenea morfologia del terreno che ruota come intorno ad un perno, circondando così la roccia con il mulino. In primo piano, il compianto di una Madonna e alcuni personaggi pii, quali potrebbero essere un san Giovanni e Maria Maddalena, sono circondati da scene di vita campestre, caratteristica tipica dell’iconografia bruegheliana. Immerso in questo scenario sovraffollato, al centro, un Cristo portacroce del quale nemmmeno si scorge il volto, e sopra di lui un albero: uno di quei tronchi ai quali all’epoca venivano amputati i rami per essere trasformati in un’orribile forca con una ruota sulla cima, alla quale veniva legato e lasciato marcire il cadavere del condannato, tra le becchettate dei corvi, sotto lo sguardo dei presenti. Tra l’idea di movimento, ritmata dalla figura della rupe sulla quale si erge un grande mulino a vento, il tempo atmosferico ventoso con le nuvole in corsa e gli uccelli in volo, i gendarmi al galoppo sui propri cavalli, potrebbero essere visti come il simbolo della distruzione e della morte portate dalla guerra, con le loro casacche rosse che paion quasi macchie di sangue a contrasto con i colori della campagna fiamminga. E ad un contrasto, almeno storicamente si allude. In quel periodo infatti i Paesi Bassi subivano la tirannia dell’occupazione spagnola, e la popolazione sottomessa era continuamente in preda alle rappresaglie dei soldati e delle milizie di Filippo II. Il punto di vista del pittore emerge con lo sguardo critico che egli aveva nei confronti della società a lui contemporanea; possiamo notarlo, autoraffiguratosi in basso a destra mentre osserva la scena, popolata da individui quasi privi di compassione per ciò che sta avvenendo, da una posizione macabra quel è quella al di sotto della forca che s’innalza in primo piano, dietro ad un mucchio di terra sul quale giace un cranio equino. Così come la Gerusalemme ai tempi di Cristo era stata sottomessa ed occupata dai romani, allo stesso modo Brueghel raffigura la città fortificata sullo sfondo a sinistra, al di fuori della quale avviene la scena del supplizio.
Per quanto riguarda le caratteristiche formali e gli schemi compositivi della scena, questo quadro differisce dagli esempi riportati da Glück e Tolnay come possibili prototipi: i soggetti analoghi di Jan van Amstel (Louvre), Herri met de Bles (Vienna, Gemäldesammlung der Accademie der bildenden Künste) e Pieter Aersten (già Kaiser-Friederich Mus. di Berlino, andata distrutta). Su asserzione di Michel, la topografia della composizione farebbe riferimento ad un analoga tavola delle Moeurs et fachons de faire des Turcz di Pieter Coecke, così come all’Andata al Calvario di Anversa del 1552, dipinta per mano di Pieter Aertsen, e infine al Golgota di Basilea appartenente al Monogramma di Brunswick.
In quanto al modulo adottato, si potrebbe invece affermare che la modalità applicata dal Brueghel in quest’opera abbia saputo fondere magistralmente il vecchio stile gotico dei paesi nordeuropei con il manierismo appreso grazie al viaggio in Italia, compiuto dall’autore negli anni a cavallo tra il 1551 e l’inizio degli anni Sessanta del secolo stesso, prima di rientrare in patria.
Lo storico dell’arte Michael Francis Gibson è autore del libro intitolato “The Mill and the Cross”, utilizzato come base per l’omonimo film del 2011 diretto dal regista polacco Lech Majewski.
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