di Luca Tosi
Quante volte parlando di adattamenti su grande schermo di prodotti cartacei avete sentito pronunciare l’immancabile e sempreverde frase "Eh ma il libro è meglio del film" ? Tantissime, presumo. Il problema è che, essendo un’affermazione generalista, non soltanto risulta spesso falsa, ma è anche priva di fondamenti veri e propri. Intendiamoci, è più che lecito preferire un prodotto di un certo tipo ad un altro, ci mancherebbe, ma ciò non deve comportare una diffidenza a priori verso gli adattamenti. Facendo un calcolo molto sommario e approssimativo, almeno il 70% dei film esistenti non possiede un soggetto originale, eppure non sembra che questo “svantaggio” abbia influito sulla qualità di lavori quali Arancia meccanica o Il padrino. C’è poco da fare, gli adattamenti sono sempre esistiti e sempre esisteranno, soprattutto grazie alla comodità che offrono ai produttori in cerca di soggetti validi. Bisognerebbe però imparare a conoscerne meglio le dinamiche per sapere cosa aspettarsi da essi e spero che questo articolo in tre parti, per quanto modesto sia, possa essere d’aiuto oltre che esauriente. Sperando che non risulti noioso (soprattutto nella prima parte), buona lettura!
Parte I – Sul significato del termine
Conoscere le parole, il loro significato originario e i loro mutamenti nel corso del tempo non è affatto banale: ci rende in grado di compiere una più accurata e selettiva scelta dei vocaboli e, di conseguenza, modificare il registro del nostro parlare a seconda delle circostanze sapendo quali sfumature e implicazioni essi assumono in un determinato contesto. Qui ci accontenteremo di una breve e semplice analisi terminologica per procedere con più consapevolezza nelle parti successive. Cominciamo subito controllando la definizione del verbo adattare ne Il Devoto-Oli. Vocabolario della lingua italiana: « 1.Fornire dei requisiti imposti da una norma di funzionalità e convenienza, spesso mediante aggiunte, sottrazioni o parziali modifiche: es. a. un locale a studio, a. la musica ai versi […] 2. medio intr. Andare o star bene; confarsi, intonarsi: quella camicetta si adatta benissimo alla mia gonna ». Per il momento lasciamo da parte il significato che il verbo assume nella forma media intransitiva e proseguiamo.
Nella medesima pagina del dizionario troviamo anche la definizione del sostantivo che ci interessa: « adattamento [a-dat-ta-mén-to] s.m. 1. Conformazione ad esigenze particolari di funzionalità e convenienza: a. di un edificio ad albergo; a. teatrale di un’opera letteraria, rielaborazione per il teatro di un’opera di narrativa o di poesia; anal. a. radiofonico, cinematografico, versione di un’opera letteraria elaborata per essere trasmessa o filmata. » Alle parole chiave che ricaviamo da entrambe le definizioni, ossia funzionalità, convenienza, modifiche, conformazione, rielaborazione e versione, basterà aggiungere contesto e otterremo così una serie di dettagli imprescindibili dal tema che stiamo trattando: non si può parlare in modo specifico di adattamento se non si hanno presenti i concetti sopra elencati.
A dimostrazione di ciò ci viene in aiuto l’etimologia. Il verbo adattare deriva dal latino adaptare, composto dal verbo apto più la preposizione di moto a luogo o fine ad(un’alternativa diffusa è accomodo, “rendere conforme”, che offre un certa sfumatura riguardo la comodità del risultato finale). Da solo apto si traduce con “preparare”, “apprestare” o, se accompagnato da ablativo, “fornire di”: ciò dimostra come in italiano sia rimasto il senso sottinteso di modifica e di rielaborazione. Inoltre il participio aptatumassume uno dei significati dell’aggettivo aptus, ovvero “appropriato”, “conveniente”. C’è comunque da specificare che il primo dei suddetti significati di aptus è “unito”, “legato”, mentre per dire “adatto” il latino preferisce usare, a seconda del contesto, idoneus, habilis, accomodatus, natus o factus. Se si parla di rassegnazione o di soggezione il latino usa accomodo/conformo ad aliquid, o convenire ad se si parla di vestiti (calcei ad pedes conveniunt, “le scarpe si adattano al piede”); nella lingua corrente c’è un richiamo a questi verbi tramite il messaggio di adattabilità (anche per costrizione), utilità e convenienza di un oggetto, che è rimasto nella forma mediale intransitiva a cui abbiamo accennato poc’anzi. Un’ultima espressione verbale interessante è convenire alicui/alicui rei, traducibile con il nostro “andare a genio”: qui si può dire che l’adattabilità del soggetto indichi la sua efficacia, il beneficio che può portare ad una persona o ad un oggetto.
Facciamo infine un paragone veloce con una lingua straniera, l’inglese, dove si possono osservare traduzioni degne di nota. Tra le più usate to adapt, to adjust/conform, to accomodate (evidente prestito latino), to arrange/set (“accordare”, quindi un tecnicismo musicale), to shape (“modellare”, quindi trasferire una forma da un oggetto ad un altro), to suit/attune (“armonizzare”), to fit (“applicare”, “sistemare”), to alter/convert into(“trasformare”, usato spesso in discorsi riguardanti la fisica e la chimica) e to dramatize (un romanzo, un’opera teatrale, ecc.). Cosa abbiamo appreso da questo excursus linguistico e dalle parole chiave evidenziate? Che in ambito artistico progettare un adattamento non conduce affatto ad un processo immediato, bensì ad un passaggio che richiede tempo, pazienza e attenzione. Il soggetto scelto subirà una selezione degli elementi da tenere e da escludere, andrà incontro inevitabilmente a modifiche perché possa risultare conveniente alla versione finale e contemporaneamente funzionale al suo nuovo scopo. Non si può inoltre escludere una rielaborazione più significativa da parte di chi se ne occupa, ma di questo parleremo più ampliamente nella terza sezione di questo ampio articolo.
Parte II – Sul cambio del medium
Una delle parole chiave riportate nella parte precedente è CONTESTO. Nel nostro caso il cambio di contesto corrisponde al trasportare un determinato prodotto artistico in una sede diversa, ossia in un diverso MEZZO o, per dirla alla latina, MEDIUM (Roman Jakobson parlerebbe di canale e di funzione fàtica). Come detto prima tale cambiamento comporta una conformazione del soggetto adattato a nuove regole e quindi ad un nuovo modo di presentare trama e contenuti. Ovviamente le difficoltà in un processo simile sono dietro l’angolo: non è raro che un’opera risulti difficile (Watchmen ebbe una gestazione di circa vent’anni prima di comparire su grande schermo nel 2009) o addirittura impossibile da adattare se non con particolari espedienti (se non si fosse fatto ricorso al metacinema probabilmente A Cock and Bull Story, cioè la versione filmica dell’antiromanzo di Laurence Sterne Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, probabilmente non avrebbe mai visto la luce). La domanda che a questo punto ci fa entrare nel vivo della questione è: quali sono questi casi? O meglio, quali difficoltà pongono gli adattamenti e quali media coinvolgono? Da qui in poi descriveremo, sulla base delle conclusioni della prima parte, il media di partenza e vedremo quali strade può prendere, fornendo degli esempi abbastanza noti per chiarire meglio il tutto. NONverranno trattati videogiochi e fumetti perché rappresentano un caso del tutto singolare che merita di essere trattato altrove, così come i film ispirati ad eventi realmente accaduti o biografici.
A) RADIO
Prima del boom della televisione negli anni Cinquanta (domenica 3 gennaio 1954 ebbero inizio i programmi RAI e l’anno seguente gli Stati Uniti cominciarono a trasmettere a colori) il principale strumento d’informazione e intrattenimento era la radio. Lo sapevate che le soap opera erano in origine dei drammi in puntate trasmessi via radio? E vi ricordate del panico scatenato dalla versione radiofonica di Orson Welles de La guerra dei mondi? Oggi i tempi sono ovviamente cambiati e la radio predomina soltanto nel campo delle trasmissioni musicali, nonostante i canali televisivi facciano di tutto per impossessarsene fin dagli anni Ottanta. Ciò nonostante essa ha ancora un gran numero di “adepti” e la sua figura è diventata, per i più anziani, simbolo della nostalgia per i tempi passati (i Queen ci hanno dedicato una canzone e Woody Allen un film). Tornando al nostro discorso, la radio può essere considerata, in un certo senso, un ritorno alla dimensione orale: come nell’antica Grecia l’aedo eseguiva in pubblico i poemi omerici perché la comunità ascoltasse e condividesse i valori e le storie trasmessi attraverso le sue performance, allo stesso modo un vasto pubblico può condividere notizie, intrattenimento e, soprattutto, musica attraverso di essa.
Inoltre la radio nasce fondamentalmente come trasmissione a distanza di messaggi in mancanza di cavi: si passa pertanto da un testo ad una serie di segnali al discorso di uno speaker. Ciò determina una fruizione pubblica in un tempo preciso e limitato nel tempo rispetto ad una privata in un tempo illimitato offerta, per esempio, da un libro (una via di mezzo è stata comunque trovata negli audiolibri). D’altra parte è innegabile che la radio stimoli la mente in maniera differente da un romanzo a causa della mancanza di un testo sottomano e che quindi porti l’ascoltatore a focalizzarsi maggiormente sul messaggio, in modo che capisca quali emozioni provare dal modo in cui vengono pronunciate le parole e che si figuri determinate immagini con l’ausilio dei suoni di contorno, che siano musicali o no (cosa che praticamente è la base comunicativa delle canzoni). Tralasciando le storie legate alla radio (si veda I Love Radio Rock) quali sono gli adattamenti possibili che essa può offrire o creare? Innanzitutto citiamo di nuovo le soap opera per dimostrare come abbia diffuso il concetto di serialità e di puntate e La guerra dei mondi di Welles per notare quanto sia un mezzo utilissimo ed efficace per narrare delle storie (e di come oggi, purtroppo, se ne sia persa l’usanza). C’è da dire che non tutti le potenzialità di questo mezzo si adattavano ad un altro o erano in grado di produrre qualcosa di soddisfacente. Tuttavia di interazioni non ne mancano. Dal 1974 infatti la Minnesota Public Radio ospita un varietà dal vivo, A Prairie Home Companion, da cui Robert Altman ha preso spunto per il suo omonimo e ultimo film, da noi ribattezzato Radio America. Ma il caso più famoso è sicuramente quella del celebre capolavoro di Douglas Adams Guida galattica per gli autostoppisti, una serie radiofonica in due stagioni adattata dallo stesso autore in due romanzi a cui sono seguiti altri tre libri, un videogioco, una serie televisiva e un film nel 2005 basato su una sua sceneggiatura (che egli non poté mai vedere trasposta a causa della sua prematura scomparsa). Ciò che in questi adattamenti non manca mai è il suono e il ruolo predominante che in essi gioca la score (che differisce dalla soundtrack). Non dimentichiamo infine, anche se non hanno sempre a che vedere con la radio, i brani dotati che hanno fornito le basi di film come Alice’s Restaurant di Arthur Penn e Convoy di Sam Peckinpah.
B) OPERE FIGURATIVE
Ancora meno utilizzate dei soggetti radiofonici sono le opere legate alle arti figurative, quali quadri, fotografie, sculture e simili. Tuttavia anche qui possiamo trovare delle idee interessanti e particolari. Ad esempio Flags of Our Fathers di Clint Eastwood è in buona sostanza tratto dalla foto Raising the Flag on Iwo Jima di Joe Rosenthal, anche se il materiale narrativo proviene dal libro di James Bradley e Ron Powers che descrive l’addestramento e le gesta dei soldati ritratti nella suddetta foto. Così I colori della passione e La ragazza con l’orecchino di perla provengono da due celebri dipinti e dai libri che ne disquisiscono (rispettivamente un saggio di storia dell’arte e un romanzo). E riflettendo proprio sui saggi di storia dell’arte si può notare come anche essi (e i saggi o libri scolastici in generale) risultino una trasposizione, in quanto il loro fine è restituire il senso o il messaggio trasmesso dalle opere di cui trattano in un mezzo diverso da quello per cui sono state concepite: le grammatiche e i testi di fisica non vanno considerati la grammatica o la fisica in quanto mera restituzione del contenuto delle stesse, sul quale nemmeno gli studiosi sono sempre concordi. Sarà dunque ancora più difficile trasmettere questo contenuto in una forma di carattere narrativo (escludendo, quindi, i documentari) che sappia andare oltre il semplice intrattenimento visivo e faccia rivivere lo spirito dell’opera originaria mediante una trama e dei personaggi tridimensionali. Va ricordato, tuttavia, che fotografia, pittura e le arti figurative sono presenti nella mente dei registi fin dagli albori del cinema e si sono ritagliate nel tempo uno spazio sempre maggiore, dalle raffinate citazioni da parte di autori come Renoir, Hitchcock o Tarkovskij fino alla trasformazione dell’oggetto pellicola in uno strumento per realizzare un qualche manufatto artistico. Come è necessario distinguere fotografie di alto livello e professionalità e fotografie artistiche, ossia nate apposta per essere un’opera d’arte, così bisognerà tenere separati film che nel campo cinematografico sono opere d’arte (come possono esserlo Quarto potere o Metropolis) e film che effettivamente sono opere d’arte, dove il mezzo cinematografico svolge “semplicemente” lo stesso ruolo che viene svolto dal rullino, dalla pietra o dalla tela (si vedano le sequenze surrealiste, gli esperimenti della Pop Art e i filmati di body art). Un’unione tra queste due dimensioni sarebbe difficile, ma efficace, a patto che la riflessione artistica non sopprima l’elemento narrativo e la caratterizzazioni dei personaggi. A questo proposito non si può non citare Barry Lyndon di Stanley Kubrick, che oltre a fornire un esaustivo ritratto del Settecento emulando in parecchie scene immagini di famosi quadri dell’epoca ci dà la sensazione di trovarci esattamente dentro di essi e viverli, soprattutto grazie alla fotografia di John Alcott, alle scenografie di Ken Adam, Roy Walker e Vernon Dixon e a costumi della nostra pluripremiata Milena Canonero. Potremmo fare altri esempi, ma basta soltanto ricordarci che la fantasia umana è senza confini e che certamente saprà fare tesoro di altri oggetti e forme particolari per trarne ispirazione da porre in nuovi progetti.
C) TELEVISIONE
Dopo il cinema, il mezzo con maggiore frequenza di trasposizioni è sicuramente la televisione. Cominciamo con gli adattamenti per la televisione. Come detto non si tratta di un fenomeno limitato, tanto che nel tempo pure i prodotti filmici, dopo quelli letterari, hanno avuto la loro versione a tubo catodico, anche se la maggior parte delle volte si trattava di espansioni dirette a più media di un determinato brand per aumentarne il successo: abbiamo difatti gli illustri esempi de Le avventure del giovane Indiana Jones e di Terminator: The Sarah Connor Chronicles. Gli adattamenti dalla televisione, invece, stanno diminuendo, soprattutto per l’alta qualità che offrono serie di forte stampo cinematografico, quali Breaking Bad o True Detective. Ciò non toglie che in passato vi siano stati numerosi casi, avvenuti perché il nome del prodotto acquistasse una fetta di pubblico maggiore. Anche qui abbiamo due mostri sacri a farci da esempio, ossia Mission: Impossiblee Star Trek. Nel primo caso le pellicole con protagonista Tom Cruise sono diventati ancora più famose e redditizie della serie originale, tanto che nel 2015 è uscito il quinto capitolo e un sesto è già in fase di preparazione; nel secondo, tra alti e bassi, esse hanno contribuito a tener vivo il nome della serie e hanno saputo adattarsi ai tempi (vedi il passaggio dalla serie classica a The Next Generation e i reboot degli anni Duemila). Non dimentichiamo inoltre il film per la televisione, caso molto diverso dalle classiche serie e in cui bisogna distinguere tre casi: 1) film originale, ma con dinamiche e mezzi, appunto, televisivi, ad esempio Sei solo, agente Vincent (L.A. Takedown) di Michael Mann; 2) semplice trasposizione che mira ad un audience differente, come potevano esserlo gli sceneggiati della RAI negli anni Cinquanta e Sessanta; 3) un derivato di una serie TV considerabile come un episodio allungato, come Doctor Who: The Movie, tratto dall’omonima serie fantascientifica britannica. E nonostante questi continui incontri tra i due mezzi, le diversità rimangono. La principale è, ovviamente, la tempistica: una stagione dura ben più di un film, che per forza di cosa difficilmente supera le tre ore. Se però la durata di una stagione può essere molto più lunga di un singolo film, quella di un episodio raramente supera l’ora e mezza per ragioni di spazi sul palinsesto. Ciononostante non si tratta di un difetto, anzi, il restare in un preciso lasso di tempo fa sì che gli sceneggiatori e i registi si impegnino per dosare bene parole ed immagini e creare sequenze brevi ma intense, passando quindi da un’analisi (cinema) ad una sintesi (televisione). Varie tematiche, eventi o relazioni tra personaggi possono essere trattati in tempi più lunghi o venir messi da parte per poi essere ripresi nelle stagioni successive. Ovviamente stiamo costruendo un ragionamento generale senza addentrarci nei generi specifici, ma il discorso è comunque sempre applicabile ad ogni tipo di prodotto seriale destinato al piccolo schermo; l’unica vera eccezione sono le serie antologiche come Ai confini della realtà e Black Mirror, dove gli episodi sono autoconclusivi ed è un messaggio o una tematica portante a fare da filo conduttore, oppure American Horror Story, dove sono le stagioni ad avere una trama indipendente una dall’altra ed è il cast a restare invariato con qualche eccezione. La serialità è dunque un vantaggio di cui purtroppo il cinema, pur di costringere gli spettatori a tornare in sala, si sta impadronendo lasciando incomplete determinate vicende di un film o lanciando una serie di interrogativi che verranno risolti nei sequel, prequel, midquel o spin-off. O meglio, che dovrebbero essere risolti, dato che spesso e volentieri se ne aggiungono altri per allungare ulteriormente un franchise oppure, al limite, quelli di partenza sono dei buchi di trama da tappare con un capitolo “reimpitivo”. Un’operazione ingiusta nei confronti di chi paga un biglietto per guardare un determinato prodotto e deve poi aspettare almeno un anno e pagarne un altro per ulteriori chiarimenti, col rischio che non ne sia valsa la pena. Questo non significa che un film non possa gettare una luce diversa su un suo predecessore, ma sicuramente non al punto da pregiudicarne la visione: non è un caso che il settimo episodio di Star Wars, Il risveglio della Forza, o vari passaggi del Marvel Cinematic Universe siano stati criticati per questi motivi mentre ancora oggi Aliens – Scontro finale o Il padrino – Parte II siano osannati come i migliori seguiti della storia. Un’ultima importante differenza su cui si continua ancora oggi a discutere è il target, ossia il tipo di pubblico. Mettendo ancora una volta da parte generi e gusti personali si potrà notare come la televisione, nata per essere alla portata di tutti, miri ad avere un pubblico molto vasto, che comprende ogni genere di persona; e se un programma non è gradito si cambia canale o si spegne l’apparecchio, cosa che al cinema trova una corrispondenza solo nell’alzarsi e andarsene senza essere rimborsati (il che in un certo senso equivale ad un’ammissione di colpa per aver sprecato tempo e denaro). Ciò comporta anche un diverso modo di mostrare le cose: la televisione può essere guardata da chiunque, dall’appassionato di serie TV e cinema all’operaio che torna a casa dopo una dura giornata di lavoro, dal bambino che ha appena finito la scuola ad un anziano pensionato, perciò, anche se cercano di prendere un certo numero di telespettatori interessati e di farlo rimanere tale senza far scendere l’audience o lo fanno crescere con marketing e passaparola, le serie TV devono tener conto del fatto che qualsiasi persona possa arrivare su quel determinato canale e rimanere colpita da ciò che sta vedendo e quindi devono rendere il loro contenuto sicuramente più fruibile di un normale film (sperando, ovviamente, di evitare compromessi artistici e danneggiare la qualità offerta o le idee dei creatori). Il cinema invece è meno soggetto a questi vincoli, è meno incline oggi ad accettare censure ed è già conscio del fatto che la maggior parte degli spettatori in sala saranno coloro che amano quel genere di film, che sono fan di quell’attore o quell’attrice o che pagano il biglietto per passare serata o pomeriggio con qualcosa di emozionante davanti agli occhi. Attenzione, con queste affermazioni non si vuole sminuire il ruolo né tantomeno la qualità dei prodotti televisivi, che, come già detto, possono essere squisitamente d’impatto, si vuole solo sottolineare un fatto, una linea di demarcazione tra questi due potenti media che solo un confronto tra una versione televisiva ed una cinematografico dello stesso soggetto può aiutare a comprendere fino in fondo. A tal proposito si ricordano il già citato Sei solo, agente Vincent e il suo più famoso rifacimento Heat – La sfida, con Al Pacino e Robert De Niro e sempre diretto da Michael Mann, valide esemplificazioni di come non sia soltanto il budget a fare la differenza.
D) TEATRO
Il motivo principale per cui un testo teatrale non va messo sullo stesso piano di una qualsiasi altra opera letteraria è il semplice fatto che esso non viene creato né tantomeno pensato per una fruizione privata. Se lo fosse perderebbe innanzitutto la sua capacità di rapportarsi con più di una persona, cioè con un pubblico, inoltre evidenzierebbe l’incapacità dell’autore di creare un contatto tra la parola e l’azione, tra la pagina e il palcoscenico. Scrivere “in modo teatrale” significa immaginarsi un dialogo o un monologo in una scena o in un atto in fieri, mentre si svolgono. Significa rinchiudere in tre mura costruite ad hoc e un’altra immaginaria lo svolgimento della trama, le azioni e le relazioni tra i personaggi e qualsiasi altra cosa possa suscitare il testo. Significa, semplificando brutalmente, tramutare ciò che su carta compare come copione e indicazioni in un’esperienza, anche priva di storia, volendo. Il teatro vive di questo limite spaziale (talora prendendosene gioco con la rottura della quarta parete) perché l’obiettivo è un altro. Certo, anche le scenografie hanno la loro importanza, ma il punto è che il teatro riesce a varcare il suddetto limite spaziale perché si concentra sul tempo, si prende i suoi tempi e può raccontare benissimo un pomeriggio quanto mille anni. È come una scatola nella quale magicamente si trova rinchiuso l’essere umano, con le sue esperienze, le sue emozioni, ecc. E il teatro non “scavalca” il tempo solo in senso figurato, visto che le opere di Shakespeare vengono ancora recitate dopo secoli vivendo di rivisitazioni e riletture. Il cinema a questo punto cosa può fare allora, oltre a rendere più grandi le ambientazioni? Sicuramente può seguire i personaggi più da vicino e sottolineare con le inquadrature determinati comportamenti o pensieri degli attori, concedendo al pubblico una maggiore immedesimazione, di salire su quel palco che fisicamente non potrebbero varcare (anche se determinati testi nascono proprio con l’intenzione di venir sentiti come “estranei” o certi attori e registi scelgono di rappresentarli come tali). Inoltre un film può soffermarsi maggiormente su eventi che il teatro, per sua natura, tende a cassare o a riassumere mediante i dialoghi o monologhi. Il cinema, insomma, è sicuramente in grado di puntare ad una resa più realistica della dimensione spazio-temporale. Ma non è necessario che ciò avvenga. Esistono film che fanno dello spazio teatrale la propria ragion d’essere, sfruttando semplicemente poche location, bravi attori e inquadrature studiate per risultare lo stesso non solo godibili, ma anche molto pregevoli: vi basti guardare qualche film di Hitchcock per capire cosa intendo dire, specialmente Il delitto perfetto e Nodo alla gola. C’è tuttavia il rischio che un film si presti talmente tanto alla dimensione teatrale da risultare fin troppo indulgente e statico, forse per eccessivo zelo nella ricerca di fedeltà al testo o alle sue dinamiche; vedasi il caso dei musical, dove l’attenzione si sposta sulle coreografie, l’esibizione ed un buon montaggio o missaggio sonoro piuttosto che sulla narrazione e, ahimè, sulla recitazione. Ma la cosa è ancora più evidente in film di stampo nettamente teatrale dal soggetto originale, pur essendocene alcuni di notevole pregio e bellezza (primo su tutti American Beauty di Sam Mendes). Nei casi in cui ciò possa accadere bisogna sperare nel talento dello sceneggiatore che costruirà l’adattamento del testo con scene adatte al nuovo mezzo e del regista che dovrà strutturarle. Moltissimi sono i testi teatrali adattati al cinema, anche per vie oblique (Lenny di Bob Fosse è tratto da una pièce di Julian Barry, che a sua volta porta in scena la vita e il pensiero del comico Lenny Bruce), ma l’autore più trasposto resta sicuramente William Shakespeare: si calcola, ad esempio, che al mondo esistano più di duecento versioni filmiche solo di Amleto! Perciò, al fine di capire meglio il discorso fatto finora e come possa variare un adattamento cinematografico di un’opera teatrale a seconda del regista e degli anni in cui viene girato, sono caldamente consigliati i lungometraggi tratti dalle opere del Bardo dell’Avon diretti da Laurence Olivier, Kenneth Branagh e Orson Welles. Oltre alle opere in sé, naturalmente. O qualsiasi altra tragedia, commedia o spettacolo che la nobile arte del teatro ci ha offerto e continuerà ad offrire.
E) CINEMA
Ebbene sì, il cinema può trarre ispirazione da se stesso, talvolta. Tralasciando le parodie (più associabili alle citazioni), si parla nella fattispecie dei remake, letteralmente ri-facimenti. In questo caso un adattamento, se così si può definire, sta nel ricreare degli elementi presenti nel lavoro originale a seconda della lettura che ne danno i nuovi autori o dell’approccio che essi hanno con i suddetti elementi. I remake, infatti, sono di solito prodotti dopo vari anni dall’uscita della loro “matrice” e qualche volta in paesi diversi, quindi è naturale che si adattino ai nuovi tempi per venire incontro ai gusti del pubblico e a modi di raccontare inediti. Ovviamente stiamo considerando pellicole di spessore e non i vari esempi americani di riproporre anche formule che avevano già funzionato una volta (cosa che purtroppo sta prendendo piede anche nel cinema italiano, che guarda alle commedie di successo dei colleghi francesi). In quei casi si tratta semplicemente della crisi delle idee da cui Hollywood cerca di sfuggire mediante la soluzione più semplice, ovvero riscaldare anche una minestra qualunque (anche dopo pochi anni) che abbia un certo seguito giusto per essere sicuri di non rimetterci nelle spese. In breve, non parliamo della comodità legata all’occasione di poter ri-fareun film, bensì del ragionamento che viene fatto dietro determinati progetti, di come il risultato finale (evento raro ma accaduto) possa raggiungere se non superare l’originale e quale sia la mentalità da adottare qualora si guardasse ad opere straniere. Tre i grandi, validi e memorabili esempi che ci vengono in aiuto. Il primo è La cosa di John Carpenter, horror-fantascientifico tratto dal racconto Who Goes There? di John Campbell: rispetto al precedente La cosa da un altro mondo, diretto dal suo idolo Howard Hawks nel 1951, Carpenter introduce due differenze importanti che permettono al suo lavoro di non copiare pari pari e distinguersi dal resto degli altri horror in circolazione fino a raggiungere lo status di cult movie e capolavoro del genere. Infondendo tutto il suo stile e mantenendosi su atmosfere ricche di suspense, egli riporta più fedelmente la paranoia e la diffidenza descritta da Campbell e con gli effetti speciali molto artigianali e all’avanguardia riprende un alieno multiforme che per forza di cose non aveva potuto essere rappresentato così da Hawks (nel 1951 più che di una “cosa” si può tranquillamente parlare di umanoide). Come la location cambia da Polo Nord a Polo Sud, così la tematica si trasforma da un’alleanza contro un nemico sconosciuto che richiama le paure della guerra fredda ad un perenne terrore verso qualunque essere vivente circondi i protagonisti, circondati dai silenziosi ghiacci dell’Antartide. Il secondo riguarda Infernal Affairs e The Departed: il secondo riprende dal primo il soggetto e lo svolgersi degli eventi, ma Scorsese e lo sceneggiatore Monahan fanno la differenza mettendo in risalto l’ambientazione americana, l’ambiguità psicologica dei personaggi e la cattiveria insita in una simile caccia che confonde preda e predatore; il risultato, oltre a essersi portato a casa cinque Oscar, rimane più memorabile perché pregno di tutto ciò che uno spettatore si attende dalla regia di Scorsese, sicuramente lontano dal melodramma dell’originale di Hong Kong. Infine, come ultimo ma non ultimo, abbiamo Terry Gilliam e il suo L’esercito delle 12 scimmie (1995), riadattamento del cortometraggio francese La jetée (1962) di Chris Marker. Quest’ultimo era strutturato come una successione di fotografie che dovessero descrivere un mondo post-apocalittico riflesso della filosofia di Sartre e del pessimismo del dopoguerra, dove la struttura, la composizione ed ogni minimo riferimento andasse a completare il messaggio concentrato in quella densa mezz’ora. Dopo decenni il produttore Robert Kosberg, fan del lavoro di Marker, ne propose un rifacimento in puro stile fantascientifico alla Universal Pictures. La major affidò alla sceneggiatura David Webb Peoples (noto ai più per il suo notevole contributo a Blade Runner) e a sua moglie Janet, mentre il produttore Charles Roven diede a Gilliam le redini in quanto lo riteneva il più adatto a raccontare di viaggi nel tempo e futuri distopici. E così fu: l’ex-Monty Python rimise in gioco il suo tipico ed eccentrico pop barocco ispirato all’Art déco, alle avanguardie novecentesche e al rétro per rendere maggiore il distacco tra la povertà del 2035 e la sobrietà del 1996 prima del contagio. In più il suo amore per il classico e la psichedelia onirica lo spinsero a inserire maggiori richiami visivi e non alle scimmie e a rendere più espliciti i riferimenti ad Hitchcock che apparivano in La jetée. In sostanza, Gilliam è più diretto di Marker, ma questo solo perché lo stile de Le 12 scimmie è più lineare e meno cerebrale del suo corrispettivo francese, figlio di un’epoca che anticipava la controcultura e prendeva spunti a piene mani da quelle riflessioni critiche dei giovani cineasti della Nouvelle Vague (amanti di Hitchcock, tra l’altro). Inoltre, se Marker punta ad un’esperienza visivo-emozionale mirata a far scaturire sensazioni esistenzialiste, Gilliam ha accettato il progetto perché toccava e ampliava quegli argomenti e dinamiche di cui era pieno Brazil: la follia, la decadenza dell’Occidente, l’autodistruzione, il conflitto tra normalità apparente e schizofrenico isolamento e la bellezza di un mondo che non c’è più. Due visioni diverse di una stessa idea, con diverse implicazioni e stimoli, ma entrambe meritevoli e degne di essere analizzate.
F) LETTERATURA
Dai libri eravamo partiti e ai libri siamo ritornati. Ricapitolando ciò che abbiamo detto finora, si può dire che il cinema cerchi di “riprodurre i suoni” della musica per svilupparli in un determinato contesto, scelga le opere artistiche per tematiche o per semplice gusto estetico da riproporre, si differenzi dalla televisione principalmente per tempistiche e tipo di pubblico, manchi del rapporto diretto con l’audience rispetto al teatro e si “ricicli” riadattando contesti e personaggi ad un nuovo pubblico con una nuova sensibilità. Con la letteratura il discorso cambia nuovamente, anche se certi aspetti si ripropongono. Essa esiste da sempre, è l’arte che nasce per prima assieme alla pittura e, poco dopo, alla scultura per motivazioni legate prima di tutto alla comunicazione e poi evolute nell’estro e nell’esternazione della nostra fantasia. È quest’ultima l’elemento in cui differisce maggiormente dal mezzo cinema e il motivo principale per cui molte persone ritengono i libri superiori ai film quando in realtà basterebbe prendere atto che si tratta di due arti diverse, in cui la linea di demarcazione sta tra potere visivo dell’immagine e stimolo mentale dell’immaginazione. Bisogna togliersi dalla testa il pregiudizio comune che ad una maggiore complessità nella descrizione dei minimi dettagli o nello sviluppo dei caratteri corrisponda una più alta qualità: il fatto che il cinema sia per forza di cose costretto a condensare tutto quello che su carta occuperebbe diverse righe non è assolutamente un difetto, è semplicemente un’esigenza delle circostanze e bisogna prenderne atto; d’altro canto, come già detto quando si è parlato della televisione, un film è fruibile nell’immediato, perciò la frase “il libro è più impegnativo”, affermata solo perché il tempo per goderne o capirlo può superare le classiche due ore, diventa ancora più sciocca, specialmente quando detta su due piedi. E non si può nemmeno credere che sia così semplice veicolare un qualsiasi testo ad un’immagine. Se è vero che quest’ultima svolge la maggior parte del lavoro, bisogna tenere conto dell’immedesimazione che devono suscitare la fotografia, la gestione del sonoro e la recitazione dei dialoghi: senza un lavoro accurato su questi elementi resta la meraviglia di veder trasposto su schermo ciò che si è letto e nulla più. In sostanza la potenza espressiva di una serie di immagini il cui movimento rende “fluido” un evento differisce dalla potenza descrittiva, che può permettersi di prendersi pause e soffermarsi su particolari secondari, ma ciò non significa che un compromesso tra le due non sia possibile. In fase di sceneggiatura, invece, la difficoltà viene dall’impostazione che l’autore originale ha scelto. Non è raro che uno scrittore pensi “cinematograficamente”, ovvero tenti di riproporre nelle frasi dei virtuali movimenti di macchina o delle caratteristiche tipiche del linguaggio filmico a cui egli ha pensato mentre visualizzava la scena nella sua mente. Sarà dunque lo sceneggiatore, in quei casi, a decidere se mettersi completamente al servizio del soggetto originale oppure inventare e innovare passaggi e azioni. Nessuno sembra farci caso, ma questa fase di scrittura è fondamentale: non si tratta solo di inserire le battute in un copione, andare di fantasia dove è possibile e basta, tutt’altro. Uno script ha il compito ben preciso di snellire i passaggi descrittivi (che verranno veicolati a specifiche immagini e inquadrature nella sceneggiatura), dilatare i tempi di narrazione adattandoli al mezzo e fornire una versione adeguata della storia, dei personaggi, delle atmosfere e degli ambienti a seconda del contesto che si vuole creare, della versione o rilettura che il regista vuole offrire e dell’eventuale messaggio che si vuole trasmettere. La sintesi costringe a scegliere su cosa soffermarsi e cosa tralasciare, a sottolineare cosa ha più colpito nella fase di trasposizione e cosa invece è apparso come una caratteristica minore nell’insieme e ciò spesso non è andato a genio ai lettori, i quali avrebbe voluto vedere altro oppure tutto quanto avevano letto. Ed è naturale che qualcuno possa rimanere scontento, tuttavia, oltre al fatto che un film debba essere godibile per tutti e non soltanto per una determinata categoria di spettatori, a taluni bisognerebbe ricordare l’ennesima ovvietà e regola aurea di chi lavora nel campo: non tutto ciò che funziona su carta (non solo fumetti) può funzionare con la stessa efficacia su schermo. Prendiamo ad esempio Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne e Gita al faro di Virginia Woolf: nel primo caso abbiamo una biografia immaginaria che si fa beffe del romanzo inglese e delle sue forme giocando anche sulla grafica e persino sugli spazi tra le righe; nel secondo il tempo scorre ora normalmente, ora lentamente per inquadrare ogni singolo pensiero della protagonista e poi di colpo accelera di dieci anni per arrivare al finale, regalando sensazioni diverse ogni volta in brani che presentano la coscienza come un riverbero di onde delicate. In breve, nel primo contano molto la forma e l’aspetto fisico del libro, nel secondo le parole e la musicalità della frase dettano la psicologia dei personaggi e l’atmosfera di vago e di malinconia presente in tutte le sezioni, per cui come sarebbe possibile riproporre su schermo simili caratteristiche? Lo stesso discorso vale per il linguaggio e gli aspetti di opere poco recenti: il purismo per certi aspetti è accettabile, ma il pubblico è vario e non si può puntare i piedi per mantenere integra ogni unità fino a rendere il risultato indigesto o incomprensibile. Si prendano La passione di Cristo di Mel Gibson e Pinocchio di Roberto Benigni: se in un caso si può discutere sulle critiche alla pronuncia del latino dato che il lungometraggio mantiene le lingue parlate all’epoca e i versi scelti dalla Bibbia, nell’altro non c’è dubbio che l’eccessiva fedeltà all’italiano arcaico di Collodi cozzi con le poche variazioni introdotte o renda inutilmente “scolastica” la pellicola. Infine, va assolutamente ricordato che nessuno potrà fisicamente leggere ogni singolo romanzo o racconto da cui è tratto un film o vedere tutte le trasposizioni realizzate dalla nascita del cinema fino ad oggi, quindi dei confronti andrebbero sostenuti con cognizione di causa, liberi da pregiudizi e senza eccessiva pignoleria. Un adattamento del vostro libro preferito non deve essere per forza di cose un’operazione commerciale e malvagia, anzi, spesso le trasposizioni hanno aiutato degli scrittori a farsi conoscere. Se così non fosse Stephen King avrebbe lo stesso seguito e successo di pubblico? E chi al di fuori del mondo letterario si sarebbe ricordato di Philip K. Dick se l’anno della sua morte non fosse venuto in soccorso Blade Runner? Ogni arte vive di regole estetiche proprie ed è impensabile imporle sulle altre, motivo per cui godiamo dei capolavori per quello che sono e per quello che ci regalano senza creare scontri privi di costrutto e carichi di astio. A meno che non siano basate su determinati criteri o le scelte adottate rovinino davvero un lavoro già bello di suo, ma su questo torneremo nella terza ed ultima sezione di questo articolo, quella sulla fedeltà.
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