di Paolo Veronese
x giorno di navigazione
Ti scrivo da un angolo dove ho trovato del cordame come sedile e un po’ di ombra di riparo; il sole sull’Oceano è crudele e la mia pelle e gli occhi si arrossano in fretta. La stanchezza sale col farsi della sera, pare addensarsi nelle ossa l’umidità e nei muscoli scavati del corpo sospetto un che di malato, un segno dei nervi che è più psicologico che fisico. Ma adesso, che c’è una nicchia di tempo voglio dedicare a questo foglio un brandello di realtà (qualunque cosa sia!), rimettere mano alla penna e scrivere qualche riga, buttare a mare qualche verso. Almeno da sentire una voce d’eco, uno spettro fra i comparti stagni di questa nave, tanto da fingere di non essere solo.
Ormai la costa della Bretagna pare solo una lontana chimera, o un capriccio della mente, che si imbriglia ancora nei vizi della terra, nelle luci febbricitanti di Brest e Fechamp, fra le braccia di femmine calde, inconsistenti come sogni, irreali, irreparabili strappi nella tela del tempo.
Dopo un mattino tranquillo, passato a osservare con curiosità la sala motori,fatte due chiacchiere con i fuochisti, neri di carbone e gialli di pelle, ho passeggiato un po’ sul ponte. L’oceano era solo una sconfinata lastra d’acciaio, indistinta quasi dal cielo, dove il sole imperava sulle acque, sottili e sibilline pagliuzze risplendevano a migliaia sul manto ondoso, mobilissimo deserto di sale, e dune dove i guizzi argentei dei pesci volanti sembrano lampi di coltelli berberi, luci assassine.
Torno in fretta su nel mio piccolo alloggio di telegrafista, con lo scatolotto della radio, un tavolino con sgabello e una branda dove appoggiare un sonno instabile; anche una buona bottiglia che ogni tanto il Capitano mi fa pervenire. Nel mio esilio in alto, come le vedette degli antichi velieri, posso godere un formicaio di marinai che si affannano sul ponte, che sbucano dalle cabine, si mescolano alle cose, cordami e catene e ancore e quel cumulo di ferro che a seconda delle ombreggiature assume i volti di Washington, di Lincoln e Gengis Khan, giocando un po’ con la fantasia.
Dopo la sosta di Terranova, per un carico di carbone, siamo diretti a Sud, distanti quanto occorre dalla costa americana, e fra pochi giorni le insidiose braccia del Mar dei Caraibi ci faranno scivolare verso quella che è solo una tappa ulteriore, Panama, il canale, superato il quale ogni legge precedente sarà carta da buttare, come dice il Capitano, perché dalla Colombia in giù c’è in corso la rivoluzione: una delle tante, credo, ma per lui è quella vera, quella che gli farà fortuna. Non so molto, in verità, mi sono imbarcato perché non c’era altro da fare, e col Capo ho già navigato molte volte, è un uomo rude senza il minimo cenno a un sorriso, eppure è a suo modo affabile, e della sua esperienza ci si può fidare. Io sono a suo dire ‘le sue antenne’, il filo e il cablogramma che ci tiene ancorati al mondo, che ci fa credere che c’è un mondo a margine delle acque, un altrove in cui vive la specie, che ha infinite occupazioni, passioni, amori e facce. Il rischio è così presente, quello di dimenticare il mondo, inseriti nella routine di bordo, come ingranaggi che girano e si adeguano e deformano per il lungo attrito: il rischio di perdere l’umanità, i sensi e l’aroma delle cose. Qui ogni cosa sa d’inquinato, sa di macchinario e di salsedine. Anche il Borgogna che ho in cuccetta, non sa più della terra lontana che l’ha trasudato. Ah le vigne, esistono ancora quei filari abbarbicati alle colline, dove emergono ogni tanto rovine romane. La Provenza, gli acquedotti antichi, tutta la storia che contiene il libro che tengo nel cassetto, esiste davvero? Ecco il punto, nel tran tran dell’officio del mare c’è solo il mare, nel soliloquio con gli addetti dei porti ci sono formule prescritte, nessuna parola che non trasgredisca all’ordine. Sinora…
Perché se è vero che il Capitano trasporta armi di contrabbando da vendere all’Ecuador, qualcosa salterà, si rovinerà l’orizzonte, un porto e un commercio illecito, cosa esploderà prima, i nervi dell’equipaggio o la ribellione in un paese di cui non importa nulla a nessuno? Il denaro arriverà, venderemo le armi e l’anima e poi. Verso Tahiti? Vivremo in quel paradiso da cartolina, sarà reale quello? Vero, almeno per ascoltare una voce vera, che parlasse anche un idioma strano, una voce umana…
O non sarà che una ennesima finzione, come se uno per riempire le ore in cui è costretto a casa si fabbrica una nave nel giardinetto e osserva dal recinto tutto l’Oceano d’asfalto in cui non ci si può navigare altro che con la mente, con rari natanti che passano e suonano una sirena di saluto, mentre si è qui, a bordo dell’incredibile vita della nave, in attesa di un attracco, chissà quando chissà dove, nella luce soffocata dalla nebbia di un porto. Vedrò Panama?
Ti saluto con affetto, questa lettera la metto nell’ultima bottiglia vuota, e l’affido al destino delle onde, sempre imperscrutabile, forse arriverà a qualcuno, come nei romanzi accade sempre. Chi sarà, sarai tu…
Pv 30 IV 2020
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